di Paolo Cacciari

L’intervento di Serge a Dublino (24-25 febbraio 2017, La via della decrescita come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile, traduzione di Alberto Castagnola, pubblicato nei siti: eddyburg e comune-info) mi pare sia molto importante e utile per farci fare un passo avanti nel precisare e dare forza alla proposta della decrescita. “La parola decrescita indica ormai un progetto alternativo complesso e che possiede una portata analitica e politica che non può essere contestata”. Penso che anche la ricca serie de “I precursori della decrescita”, collana da lui diretta in corso di pubblicazione in Italia da Jaca Book, sia molto utile ad ampliare la intuizione/visione della decrescita.
Sulla scia del suo scritto vorrei fare alcune osservazioni.

Partiamo dalla fine. Il progetto capitalista è quello della “mercificazione totale del mondo”. Come aveva previsto Polanyi, siamo di fronte alla “nascita della società del mercato e dell’ideologia economica, in cui tutto (merci, denaro, servizi, credito) diventa oggetto di scambio, provoca un processo di autonomizzazione dell’economia dalla società e dalla politica” (Karl Polanyi, La grande trasformazione). Cose, persone, natura… tutto è fattore o mezzo o strumento di produzione. Ogni relazione tra le persone e tra le persone e il mondo naturale deve strutturarsi in forma utile all’accrescimento delle capacità produttive. L’economia diventa la forma di pensiero che permette di ordinare ogni cosa secondo i principi dell’utilitarismo produttivo. L’economia capitalista assume quindi uno statuto autonomo e sovraordinato rispetto a tutte le altre discipline. E’ il sistema dei sistemi. L’economia di mercato è totalizzante e dominante. L’economia di mercato è il contenuto stesso della politica, del diritto, della scienza, della formazione, della medicina… di ogni attività umana. “Civiltà del mercato totale”, la definisce Mancini (Roberto Mancini, Trasformare l’economia). Le tecnoscienze e il denaro sono diventati così i due pilastri dell’intero progetto di civilizzazione del mondo (assoggettamento, sfruttamento, saccheggio, gerarchizzazione, dominio) giunto alla fase del “capitalismo assoluto”, come sistema unico generalizzato. Il capitale si fa totale (“capitalismo bio-cognitivo finanziarizzato”, lo chiama Fumagalli, Grateful dead economy. La psichedelica finanziaria, AgenziaX, 2016), avvolge il mondo e penetra fino nelle sfere più intime delle persone. Si propaga sulle onde elettromagnetiche, mercifica tutto ciò che sfiora, plasma i desideri e condiziona i comportamenti umani. Nel capitalismo “tutto è economico”, per d’avvero.
I capisaldi del progetto capitalistico furono già splendidamente descritti 350 anni fa da John Locke in due righe: “Colui che recinta un terreno e da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarne da cento acri lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità” (Trattato sul governo, 1662). Qui c’è già davvero tutta l’ideologia trionfante del capitalismo! “Colui”, l’imprenditore come potenza solitaria che “recinta” e si appropria dei beni comuni (poco importa se siano res nullius o res communes omnium, se siano terre selvagge o abitate da selvaggi) e legittima la sua proprietà esclusiva in forza della sua superiore capacità di lavoro produttivo, compie un’opera di utilità generale, di interesse collettivo, poiché “dona all’umanità”, cioè ai consumatori, “maggiore quantità” di merci. Nel segno delle forze produttive: opulenza per tutti! Fin dall’inizio la logica economica della massimizzazione delle rese è costitutiva di tutto l’ordinamento politico, giuridico, antropologico della società capitalistica. Economia di mercato, tecnoscienza e politica si identificano in un comune intento.
Se tutto ciò è vero, “mettere in causa il sistema economico”, come suggerisce Latouche, equivale a mettere in discussione l’intera impalcatura del progetto capitalistico. Contestare la concezione prevalente dell’economia può essere un buon inizio per destrutturare l’intero sistema sociale dominante.

Come riuscire a rompere la catena che lega crescita-sviluppo-progresso-benessere-felicità nell’immaginario comune?
Latouche ha più volte affermato che bisognerebbe “uscire dall’economia come realtà e come logica”. E qui si deve intendere, non solo fuoriuscire da una forma storicamente determinata di economia (neoliberismo, turbo-capitalismo, finanzcapitalismo…) e nemmeno solo dall’economicismo, ma dal pensiero utilitaristico in quanto tale, forse anche dall’antropocentrismo.
Ma l’economia esisteva anche prima di Locke, Smith, Riccardo, Marx… e forse ve ne sarà bisogno anche dopo. La battaglia culturale e politica da ingaggiare allora a me sembra sia quella attorno al significato da attribuire al pensiero e alle pratiche economiche. Al loro valore e al loro compito, che dovrebbe essere quello di studiare come poter utilizzare al meglio le risorse disponibili (il lavoro e i servizi ecosistemici) per soddisfare i bisogni umani.
Com’è arcinoto, già Aristotele usava due termini diversi per indicare l’arte di arricchirsi e di guadagnare denaro (crematistica) e la gestione oculata del patrimonio familiare (economia).
E’ possibile riscoprire e attribuire all’economia significati diversi da quello oggi egemone? E’ possibile riconcettualizzare la nozione di economia? Inventarcene una completamente nuova? Non una “nuova economia”, ma un’economia nuova. Non si tratta solo di “ridimensionare” l’economia e relativizzarla facendola retrocedere dentro i ranghi dell’etica del bene comune e della politica. (La responsabilità sociale e ambientale delle imprese – come scrive Latouche – serve per imballare i prodotti a largo consumo). Non si tratta di lasciarle un po’ meno mano libera al mercato, di “domarlo” e addomesticarlo, come se fosse uno strumento neutrale da poter mettere al servizio di qualsivoglia finalità. Il capitalismo naturale e a misura d’uomo non riusciranno mai ad inventarlo! L’economia non è affatto una scienza oggettiva e neutra – se mai ne esiste una. Queste operazioni sono state tentate molte volte con esiti fallimentari nelle varie esperienze storiche della socialdemocrazia, del laburismo, del cristianesimo sociale. Serve invece una ambiziosa svolta teorica e pratica: vanno cambiati gli scopi e lo statuto dell’economia. Dobbiamo attribuire all’operare economico un senso proprio intrinsecamente connaturato al buon agire umano.
Un’operazione che a me pare possibile. Sempre Polanyi scriveva: “l’illusione economicista consiste nell’artificiale identificazione dell’economia con la forma che assume in un sistema di mercato” (Polanyi, La sussistenza dell’uomo: il ruolo dell’economia nelle società antiche, 1983).

Economia ed ecologa (è stato scritto innumerevoli volte) vengono dalla stessa radice “oikos” (casa, dimora, terra… il luogo delle nostre radici). Così come, del resto, “homo” e “humus”. Terra e umano, natura e cultura, corpo e anima… debbono finalmente ricomporsi in una visione dove il qualitativo e il quantitativo, il razionale e lo spirituale smettono di appartenere a sfere separate, contrapposte, dicotomiche. Così anche il “nomos” e il “logos”, le leggi dell’uomo e la saggezza divina, potrebbero finalmente riavvicinarsi. Ha scritto Mancini: “Quando viene detto ‘economia’ non è mai qualcosa di solamente economico. L’economia è spiritualità, cultura, etica, politica, tradizione” (Roberto Mancini, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Franco Angeli 2014, p.141). Economiche sono tutte le forme di produzione, di scambio e di fruizione di qualsiasi bene o servizio utili al buon vivere in comune delle persone. L’economia è prima di tutto cura di sé, degli altri, del mondo. Rifondare la nozione di economia è possibile ed è una operazione che accompagna, valorizza, aiuta la sperimentazione di nuove pratiche sociale post-crescita, post-sviluppo, post-capitaliste. Quelle che si prendono cura delle condizioni necessarie a soddisfare i bisogni umani di una dignitosa qualità della vita per tutte e tutti; quelle che impegnano le infinite facoltà umane in attività di generale utilità; quelle che garantiscono la preservazione e la rigenerazione della vita nel pianeta. Le economie solidali, quindi, non sono solo tattiche di resistenza individuali, rifugi dove rimanere in attesa del cambiamento globale, ma il movimento stesso del cambiamento.
La sfida che lanciamo all’economia non è quella di ritirarsi un poco, di lasciare un po’ di più di spazio vitale ad altre forme “non economiche” di produzione, ma, al contrario, di superare ciò che l’ha resa così gretta e miope: il limitarsi a considerare solo ciò che ha un valore monetario, la sua incapacità di cogliere gli aspetti qualitativi e di senso profondo delle azioni umane. Il suo essere stata completamente declassata a tecnica ethics free al servizio del business, dell’accumulazione di denaro e della valorizzazione del capitale. In altri termini andrebbe contestato l’approccio riduzionistico ed esclusivamente quantitativo (econometria) del discorso economico. Va chiesto alle discipline economiche (come è già avvenuto in altri campi del sapere) di trasformarsi in una “nuova scienza della qualità”. Vedi Capra e Henderson: la “visione lineare dello sviluppo economico, adottata da economisti e politici, corrisponde a un concetto  quantitativo della crescita economica, mentre il senso dello sviluppo biologico ed ecologico corrisponde alla nozione di crescita qualitativa” (Crescita qualitativa, http://www.ethicalmrkets.com) dove possano trovare posto le dimensioni sociali, ecologiche e spirituali del vivere in relazione. In una parola si tratta di ridefinire il concetto di ricchezza tenendo conto delle esperienze soggettive e delle esigenze profonde delle persone.
Non è molto diverso da ciò che ha scritto Bergoglio nell’enciclica Laudato si’: “Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso” e “riflettere sul senso dell’economia e sulla sua finalità” (§194), attraverso la fuoriuscita dal “paradigma utilitaristico” (§215).

Secondo il mio modestissimo parere, oltre alla economia, non lascerei cadere in mano nemica nemmeno il concetto di sviluppo. L’assorbimento della nozione di sviluppo (così come, del resto, quella di progresso e di benessere) dentro il meccanismo infernale della crescita indefinita (la “spirale di autodistruzione”, per usare ancora le parole di Bergoglio) è un’operazione truffaldina. Anche in questo caso sarei dell’opinione di accettare la sfida in campo aperto sulla definizione di sviluppo umano. Anche secondo me “i recenti dibattiti sulla significatività degli indicatori” sono un ottimo terreno per convincere le persone ad abbandonare il feticcio della crescita.

Infine, anche secondo me, la decrescita continua ad essere un efficace titolo metapolitico sotto il quale declinare in vario modo una proposta (forse la più radicale) di rivolgimento degli assetti e delle relazioni socioeconomiche. La decrescita non è una mera esortazione al cambiamento e nemmeno un’astrazione ideologica da cui far discendere modelli universali. Chiama ciascuno a fare qualcosa ora. Insomma, non la declasserei a slogan, atto iconoclasta, bomba semantica… Mi piace di più considerarla una chiamata all’azione. Trovare il modo di sottrarre all’economia di mercato anche solo un centesimo di euro mi produce una impagabile soddisfazione!